L’ora delle streghe

Fontanone dell’Acqua Paola.

Minuto più, minuto meno, sono le quattro di notte.

Non che importi. Nessuno ha mai realmente sincronizzato gli orologi di Roma, come se fosse superfluo voler essere puntuali, per la Città Eterna. Non importa realmente nemmeno a te, che mi hai chiesto l’ora senza urgenza, continuando ad osservare lontano, ben oltre questa balaustra in travertino, ignorando persino la grattachecca che si scioglie lentamente nel bicchiere pieno di cocco e di limone accanto a te.

A quest’ora Roma riposa quieta: le luci artificiali delle strade e delle insegne sembrano una distesa di lucciole appoggiate su un bellissimo manto di macerie levigato dai secoli. Persino Trastevere, piccolo demone urbano, ha messo a tacere i suoi tumulti tribali. Del traffico, delle urla dei cittadini, delle bestemmie urlate contro i denti bianchissimi del colonnato del Vaticano, ormai non sono rimasti che i fantasmi.

Di cosa stavamo parlando? Lo schermo del tuo cellulare torna a spegnersi, e io ti inseguo ovunque il tuo sguardo sia fuggito, oltre i cavalli alati del Vittoriano, lontano, verso San Giovanni. Le cupole e le guglie delle chiese sporgono fra i tetti come capezzoli di una Madre Fede, che sembra abbracciare chiunque nasca in questa città, a prescindere dal credo. Sarà per questo che nemmeno mi accorgo di aver abbassato il tono di voce quando riprendo a parlarti, e ti confesso che una volta ci salivo più spesso, quassù. Per scappare, talvolta dai litigi, dal controllo, dall’ansia di una vita che ha continuato a scorrere incurante dei miei affanni, torbida e dorata come questo fiume che serpeggia stanco verso il mare. Ma anche per cose più divertenti, per festeggiare un compleanno, per ubriacarmi con un’amica, per rubare le mie prime notti romantiche e clandestine.

Faccio una breve pausa, e sorridendo aggiungo che la cosa davvero buffa è che in tutti questi casi erano quasi sempre le quattro di notte. Minuto più, minuto meno.

La cosa sembra divertirti abbastanza da riportarti a me. Hai gli occhi verdi ma, in questo buio, sono solo di un nero più brillante del mio.

“E perché sarebbe buffa?” Chiedi, gentile come sei sempre stato, tornando poco dopo ad osservare quell’orizzonte antico.

Tentenno per un attimo, poi ti spiego che mio padre la chiamava l’ora delle streghe, quel momento del giorno in cui le pareti fra il nostro mondo, e quello degli spiriti, era più sottile. Gli spettri e i mostri potevano scappare ai sogni dei bambini e farsi reali, se non si stava attenti.

Mentre parlo ho come la convinzione di avertela già raccontata questa storia, ma non importa, perché comunque sembra divertirti. Io mi imbarazzo e aggiungo che, anche se era solo una favola, probabilmente era stata quella l’origine della mia insonnia.

Tu ridi. Io penso che sia bello vederti ridere. Hai una cicatrice vicino alla bocca, di cui non mi ricordavo. Strano, penso, perché sembra profonda, ma come se già facesse parte di un passato distante. Da quant’è che siamo qui? C’è come una nebbia, nella mia mente, ma la tua voce torna a prendermi tra i miei pensieri.

“Volevi vederli, questi mostri, o assicurarti che non venissero a prenderti?”

La domanda mi coglie impreparata, e i miei pensieri si confondono. Sposto lo sguardo verso quei piccoli pezzi di cocco e di limone che scivolano pesanti attraverso il ghiaccio semi disciolto nel bicchiere, appannato, come i miei ragionamenti. Riflettendoci, forse ho solo cercato un punto di vista più alto per controllare meglio. Per cercare di sentirmi al sicuro, nonostante tutto. E in realtà le quattro di notte sono un momento perfetto per sentirsi al sicuro: è troppo tardi

e troppo presto per tutto, anche per gli sbagli. Santi e peccatori, ormai aspettano tutti l’alba.

Annuisci, e non dici nulla per un lungo tempo, poi prendi un lungo respiro.

La città scintilla nei tuoi occhi.

“…Certo che è bellissima, da qui.”

Roma. Roma è come una malattia, per chiunque ci sia nato. Una di quelle per le quali non c’è cura. Puoi odiarla, cambiare città, puoi fuggire all’estero, ma prima o poi ti riporta a sé. È ineluttabile, come la morte.

Forse ho pensato a voce alta.

Forse ti ho messo a disagio. Penso di aver detto qualcosa di fuori luogo, così mi affretto a cambiare tono di voce, scuoterlo, chiederti se non hai intenzione di mangiartela quella grattachecca, perché ormai è quasi sciolta, e oltretutto è la mia preferita.

Funziona. Mi allunghi una di quelle occhiate furbe, una di quelle che mi faceva sempre domandare se ci fosse qualcosa di più, tra di noi, oltre alla nostra amicizia. Nonostante mi arrivi velata di una malinconia che non mi spiego, mi strega come la prima volta.

“Lo so…,” Rispondi, con una saccenza leggermente aspra. Inspiri a fondo e osservando il bicchiere ne afferri il bordo con dita delicate. “…Tieni. L’ho presa per te.” Lo avvicini a me di qualche centimetro, è così vicino da riempire l’aria tiepida del profumo di limone e di zucchero, eppure, per quanto la desidero, sembra irraggiungibile. Manca poco, ad un nuovo giorno. L’alba colorerà i tetti di rosa, lentamente. Le campane torneranno a suonare. Penso che ci sia qualcosa di magico nel modo in cui Roma riesca a tenere tutto insieme, nel suo equilibrio caotico. Il passato, il presente. Lo splendido, l’osceno. Penso a dove potremmo fare colazione, dopo, quando torneremo giù, quando…

Dal tuo viso una lacrima si stacca da uno zigomo e in un tuffo finisce dentro al bicchiere, facendolo debordare leggermente. L’acqua zuccherina scivola sul travertino fino a me, ma non mi tocca, non potrà mai toccarmi.

Da qualche parte, in uno dei tanti orologi sparsi per la Città Eterna, le quattro sono appena passate, minuto più, minuto meno.

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Katrina